domenica 9 settembre 2012

- SETTEMBRE -


C'era un tempo in cui mi sembrava tutto diverso. Non c'era giorno in cui non andassi al lago, al tramonto. 
La bellezza di quel paesaggio, come uno scorcio di eden, malinconico e confortante al contempo.
Quando poi arrivava il crepuscolo era come un mantello, soffice e caldo, e subito si accendevano le gemme del cielo, mentre lontano potevo ancora vedere il rosso porpora del sole.
Mi ricordo di un giorno in particolare. Con mio fratello passeggiavamo, silenziosi, al porto delle barche. 
Era un pomeriggio d'inverno, e il vento ci tagliava le gote come una lama.
I gabbiani volavano a cerchi. Ci fermammo sulle rocce in fondo, ad osservare l'isola di lontano.
Le onde ci accompagnavano nella visione, con il loro dolce infrangersi sui fondi delle barche. 
Mio fratello era bello come un dio, con quei suoi riccioli biondi e gli occhi celesti come l'acqua. 
Un naso prepotentemente all'insù anticipava una bocca carnosa contorniata da un accenno di barba rossiccia.
Aveva le mani rosse dal freddo e anche sfregandosele continuamente non riusciva a scaldarsi.
Gli detti un pizzicotto sulla guancia, dicendogli di non fare la femmina, ridendo come una bambina.
Lui rise e poi mi guardò.
Fisso. In quei suoi occhi potevi perderti, come in un immenso oceano.
Fui un attimo interdetta da quello sguardo allo stesso tempo pieno d'amore e di un'infinita tristezza.
" Stefano, che succede ? "
" Niente. Penso che me ne andrò presto. "
" Dove vuoi andare ? "
" Non lo so ancora. Però tu pensami sempre con te. "  
Mi dette un bacio. Mi strinse forte a sè. 
Sentii il suo profumo: sandalo; forte e avvolgente come lo era lui. Un spirito sempre irrequieto. 
Il sole scese all'orizzonte e noi ce ne tornammo a casa, dalla mamma e il babbo.

Una mattina di circa un mese dopo, mi svegliai presto, come mi era solito per andare al lavoro.
Come ogni giorno andai alla camera di Stefano per svegliarlo. Certe volte era proprio un pelandrone.
Il letto era ancora fatto e il suo cappotto non c'era.
Andai in cucina da mamma, dicendole che Stefano non era tornato per la notte.
" Avrà fatto serata con Orlando e gli altri, probabilmente. Tornerà per pranzo con una fame da lupo e il babbo gli farà la solita ramanzina. " 
Andai al lavoro. Tornai per le 1.
Facemmo il pranzo. Stefano non si era ancora fatto vedere.
" Io a quello screanzato gliela fò vede io quando torna! "
" Babbo dai, stai calmo. Presto chiamerà e si scuserà. "

Si fecero le 5.
La mamma chiamò a casa di tutti gli amici di Stefano, ma nessuno l'aveva visto da almeno due giorni.
Iniziammo a preoccuparci seriamente. Il babbo chiamò i carabinieri. 
Alla mamma già stava mancando il respiro. La sentivo stringersi le mani al petto e sussurrare preghiere alla Madonna. L'abbracciavo dicendole che sarebbe andato tutto bene, mentre guardavo in alto, verso la foto di nonna Artemisia, sperando ci proteggesse. 
In quel momento mi tornavano in mente gli occhi di mio fratello in quel pomeriggio strano. 
Sembravano un mare in burrasca, potevi vederci l'universo in tumulto, eppure vi era racchiusa tutta la dolcezza di questo mondo.

Due ore dopo suonarono alla porta. 
Era un carabiniere. Il suo nome era Michele. Era alto e grosso, avrebbe dato sicurezza a qualsiasi donna. Pensai che si sarebbe sposato presto, seppur così giovane. 
Ci disse che dopo un'incessante ricerca, avevano trovato mio fratello. 
Mia madre si sentii mancare e io dovetti sorreggerla con tutte le mie forze, mentre le lacrime mi rigavano il viso. 
Il babbo si mise le mani tra i capelli e si nascose in bagno, per non farsi veder piangere.
Andai con il carabiniere per il riconoscimento.
Arrivai al molo. Vedevo già da lontano il lenzuolo bianco steso sulla sabbia, bagnato dalle onde.
Per un attimo pensai di non farcela. I miei piedi pesavano come macigni e sentivo il mio cuore spezzarsi come un cristallo, rilasciando un pungolo di dolore che mi arrivava fino all'intestino.
Stefano era steso a pancia sotto, con braccia e gambe aperte.
Si era riempito le tasche del cappotto di sassi e si era lasciato morire così, tra le onde del nostro lago.
Nella tasca dei pantaloni gli avevano trovato il mio vangelo.
Lo avevo rimproverato tante volte del fatto che me lo prendesse senza dirmelo.
La copertina ritraeva un sole al tramonto, circondato da un cielo cupo.
Mi ricordo di come la sua mano giacesse lì, inerme e bluastra.
La sua bocca carnosa era semiaperta, quasi cercasse ancora di assaggiare l'ultimo filo d'aria.
I suoi occhi blu, così vivi pochi giorni prima, ora erano vuoti e fissi.
Ma il loro blu era ancora così intenso che sembrava mi guardasse ancora.

Lo seppellimmo vicino nonna Artemisia. La nonna che lo aveva fatto nascere e lo aveva cresciuto, mentre mamma andava al lavoro e io andavo a scuola.
Il babbo non parlò più per un mese. Si racchiuse nel suo silenzio perché non sapeva elaborare il dolore.
La mamma era sempre in chiesa, cercando un conforto in quelle mura fredde e inanimate.

Sono tornata al cimitero oggi, come faccio ogni domenica di ogni settimana.
Trovo sempre una rosa, sulla tomba di Stefano.
L'unica cosa viva in quel posto addormentato.
Ma non ho mai saputo chi la portasse. 

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